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Sustainable forest management can not disregard the current knowledge on ecology and conservation

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 15, Pages 51-55 (2018)
doi: https://doi.org/10.3832/efor2782-015
Published: May 03, 2018 - Copyright © 2018 SISEF

Commentaries & Perspectives

Abstract

In this note, the new Italian law for active forestry is discussed in relation to sustainable forest management criteria. In particular, we discuss how the law has serious flaws concerning the aim of “Maintenance, conservation and appropriate enhancement of biological diversity in forest ecosystems”. We ask for an inclusion of conservation biology principles following the “Half of the Earth Paradigm” stated by Edward Wilson to ensure forest biodiversity conservation for future generation. A sustainable forest policy should also consider adequate criteria for the preservation of existing old growth forests and the rewilding of remote or strategic environments at regional level through the ecological planning of strict reserves in the different ecoregions.

Keywords

Sustainable Forest Management, Forest Europe, Conservation Biology, Biodiversity, Naturalness, Rewilding

Introduzione 

Il dibattito che anima questi giorni sulla nuova legge forestale italiana è largamente conseguenza di una mancanza di una politica forestale comune della UE ([3]) che, quindi, ruota intono ad una strategia di gestione forestale produttiva (Multi-annual Implementation Plan of the new EU Forest Strategy - [6]) di impronta alpina e nord europea. Un ruolo centrale in questo processo viene da anni svolto dall’EFI (European Forest Institute) che considera le foreste una infrastruttura verde capace di dare una risposta fondamentale ai diversi problemi di sostenibilità ambientale attraverso una valorizzazione bioeconomica delle filiere forestali (EFI strategy 2025 - [5]). La mancanza di una adeguata considerazione della complessità dei processi dell’ecosistema foresta preoccupa per gli impatti che possono derivare da un ritorno diffuso della gestione attiva, che giuridicamente viene dichiarata equivalente alla gestione forestale sostenibile, senza però prevedere nella legge una adeguata normativa per la tutela degli ambiti strategici per la conservazione delle foreste come specificatamente previsto nei criteri di Forest Europe ([9]) e nella strategia europea per la conservazione della biodiversità ([2]).

Con l’approssimarsi dell’approvazione del nuovo Decreto Legislativo sulle foreste, una parte della comunità scientifica e numerose associazioni ambientaliste (p. es., Italia Nostra, Lipu, Greenpeace WWF, Pro Natura) che non erano state coinvolte nella discussione e nei diversi tavoli di lavoro (vedi anche il rapporto del WWF per i rilievi sulla adeguatezza del processo partecipativo - [23]) ha sentito il bisogno di lanciare una petizione per chiedere una revisione del Decreto Legislativo ([8]). Vari sono gli argomenti sollevati dal gruppo di botanici, zoologi, ecologi, forestali e altri che hanno sottoscritto un documento indirizzato al Presidente del Consiglio e al Presidente della Repubblica, ma il tema di fondo è quello che, alla luce delle conoscenze scientifiche attuali, e per le necessità strategiche di sostenibilità, i boschi non possono più essere considerati solo dal punto di vista della produzione, come del resto testimoniano gli stessi criteri del processo Forest Europe ([9]). La recente promulgazione del Decreto Legislativo da parte del Presidente della Repubblica rende tale discussione sulla attuale conoscenza ecologica e conservazionistica di interesse strategico al fine di perseguire una gestione forestale sostenibile.

Infatti, la Gestione Forestale Sostenibile, definita dalla Conferenza Ministeriale per la Protezione delle Foreste in Europa ad Helsinki nel 1993 ([9]), si realizza quando come riportato nell’art. 3 comma 2 lettera b del Decreto Legislativo: “la gestione e l’uso delle foreste e dei terreni forestali nelle forme e ad un tasso di utilizzo che consentono di mantenerne la biodiversità, produttività, capacità di rinnovazione, vitalità e potenzialità di adempiere, ora e nel futuro, a rilevanti funzioni ecologiche, economiche e sociali a livello locale, nazionale e globale, senza comportare danni ad altri ecosistemi”. A questo proposito un primo rilevante problema della nuova legge forestale discende dall’equiparazione della gestione forestale sostenibile con la gestione attiva, attività che la legge intende rilanciare. Tuttavia, nella sua attuale forma, tale decreto sembra non tutelare in modo appropriato gli aspetti naturali in generale, e di biodiversità in particolare, degli ecosistemi forestali poiché nei principi della legge non vengono considerati in modo adeguato diversi criteri di Forest Europe (criteri 1, 2, 4 e 5). In questa nota critica, la discussione verterà principalmente intorno al criterio 4 (Maintenance, conservation and appropriate enhancement of biological diversity in forest ecosystems), con speciale riferimento alle componenti di biodiversità specializzate per gli ambiente forestali più naturali. È infatti ben noto nella biologia della conservazione che le attività selvicolturali, anche quelle a più basso impatto ambientale, possono interagire anche seriamente con quei processi naturali che sottendono strutture, composizioni e funzioni necessarie per conservare la biodiversità nemorale ([4], [14]).

Le riserve integrali: un aspetto chiave nella gestione forestale sostenibile 

Eppure in Europa abbiamo interessanti esempi di casi di successo nella biologia della conservazione con una scuola applicata a questi temi strategici per il futuro della vita sul Pianeta che vede nello studio e nella conservazione delle foreste vetuste temperate un punto di riferimento internazionale ([10], [12], [17]). Un esempio tra tutti sono le foreste vetuste di faggio, dove l’interesse dei ricercatori e le misure di conservazione fondano le proprie radici negli anni ’20 e ’30 dello scorso secolo con un testimone passato ad almeno tre generazioni e che è stato recentemente coronato dal riconoscimento delle foreste vetuste di faggio come patrimonio UNESCO dell’umanità ([20]). Detto questo, si osserva anche come l’Unione Europea non abbia avuto mai una politica chiara sulla wilderness. Nella strategia per la biodiversità della UE ([2]), anche di fronte alle grandi sfide dei cambiamenti climatici e di perdita della biodiversità forestale, non si è andati molto oltre ai concetti, pur buoni, di rete Natura 2000. Sappiamo bene i limiti della valutazione di incidenza, per cui anche di fronte a formazioni forestali di estremo valore ecologico eventualmente presenti nei siti della rete Natura non sia praticabile l’interdizione all’uso, ma sia possibile solo dare dei vincoli sulla base del principio di cautela, in quanto la direttiva non prevede la realizzazione di aree di riserva integrale. A questo proposito, con specifico riferimento alle attività di pianificazione forestale è, tuttavia, interessante il Target 3 (Increase the contribution of agriculture and forestry to maintaining and enhancing biodiversity- Action 12: Integrate biodiversity measures in forest management plans) che prevede di preservare delle wilderness areas (ossia ecosistemi di interesse naturalistico da destinare al dinamismo naturale) nei piani di gestione forestale dei Stati Membri. Tali aree di riserva integrale, che nella forma spazialmente più ridotta prendono il nome di “isole” ad invecchiamento indefinito, opportunamente individuate nei boschi utilizzati sono fondamentali non solo per conservare la biodiversità forestale di habitat prioritari, ma anche per la funzione di corridoio ecologico o di stepping stones tra le riserve integrali dei parchi. Il principio di lasciare porzioni di bosco al dinamismo naturale, senza alcun intervento antropico, è fondamentale per lo sviluppo sostenibile ed è pure auspicato da Forest Europe e dalla strategia europea per la conservazione della biodiversità, ma non viene recepito e sancito dalla legge. Va inoltre detto che recentemente il dibattito sulla conservazione della natura e sul rewilding, ossia su un approccio alla gestione del territorio che punta alla tutela integrale dei processi spontanei che sottendono la genesi dei paesaggi naturali, nel caso di quelli forestali dagli stadi pionieri alle foreste vetuste ([18]), sta interessando i decisori politici e finanziari riservando appositi finanziamenti per aprire nuovi orizzonti nella gestione e valorizzazione del paesaggio ([7]).

Paradossalmente, in questo momento molto più ambizioso è l’approccio di Forest Europe nato con la conferenza di Strasburgo nel 1990, dove nel criterio 4 dedicato al tema delle biodiversità (Maintenance, conservation and appropriate enhancement of biological diversity in forest ecosystems) con gli indicatori 4.3 (superficie forestale nazionale classificata secondo i tre livelli di naturalità della FAO; naturalness: undisturbed by man, semi-natural, plantations,) e 4.9 (The individual classes of protected and protective forest and other wooded land, defined by the management objective and restrictions to interventions) vengono monitorati gli spazi privi di interferenza antropica occupati o da foreste vetuste o da processi che si esprimono secondo un diverso grado di naturalità. È forse accettabile che la legge non preveda concetti per garantire un’adeguata distribuzione di riserve forestali integrali, strategiche per garantire la salvaguardia a lungo termine di processi ecologici e di importanti servizi ecosistemici nelle diverse ecoregioni del territorio forestale nazionale? Eppure proprio in regioni importanti dal punto di vista biogeografico e forestale, quali ad esempio la Carnia, sono presenti lembi di foreste vetuste con funzioni protettive (quest’ultime tutelate dal Decreto, art. 3 comma 2 lettera r), unici per la regione alpina, dove si stanno ricostituendo le complesse catene trofiche, come testimoniato dal ritorno di predatori apicali quali la lince e lo sciacallo dorato. Che sarà di queste foreste risparmiate da decenni dalle utilizzazioni forestali in seguito all’approvazione di questa legge? Come nel caso delle aree di riserva integrale di interesse strategico per la conservazione della biodiversità, sarebbe stato opportuno prevedere nell’articolo 6, sulla base dell’art. 117 della Costituzione, dei vincoli normativi a tutela dell’ambiente e dell’ecosistema foresta (per esempio, superficie minima da lasciare al dinamismo naturale attraverso apposita zonizzazione del territorio) supportati da adeguati criteri procedurali al fine di garantire l’attuazione del principio di gestione forestale sostenibile a scala regionale. In questo modo il Paese avrebbe potuto assolvere a quegli impegni di politica ambientale siglati a livello internazionale che sono stati il presupposto della presente legge.

Infatti, sebbene nella relazione illustrativa della nuova legge forestale si dichiari che questa è stata elaborata considerando le indicazioni e gli impegni delle conferenze ministeriali per la Protezione delle Foreste in Europa (Forest Europe), il testo della legge non riporta alcun articolo che declini nel contesto nazionale e regionale una politica per la tutela degli ambiti forestali di elevata naturalità, con dei chiari obiettivi di indirizzo anche ai fini di una loro eventuale espansione. Fa eccezione il richiamo alla necessità di speciali azioni di conservazione per i boschi vetusti, definiti però in modo troppo vago ed ecologicamente discutibile, poiché gli attributi che caratterizzano lo stato vetusto di un ecosistema non vengono individuati sulla base di specifiche soglie cronologiche e dimensionali (per esempio, età, biomassa e necromassa). Tale definizione “aperta” risulta, quindi, foriera di importanti problemi interpretativi e di tutela che non dovrebbero essere lasciati all’assoluta autonomia delle regioni per cui a questo punto andrebbero puntualmente disciplinati nell’ambito delle apposite disposizioni previste all’art. 6 comma 7. Poiché i numerosi contenziosi legali sulla presenza o meno di un bosco su una determinata area sono scaturiti anche in seguito alle differenti definizioni regionali rispetto a quella nazionale che questa legge finalmente risolve ritornando ad un’unica definizione di bosco - sebbene non coincidente con quella della FAO - situazioni problematiche simili, ma di bel altra gravità, potrebbero ripetersi mettendo a rischio la conservazione delle foreste vetuste. Così, un ritorno diffuso delle utilizzazioni in mancanza di una ricognizione rapida ed efficace - ossia operata da esperti finalizzata al loro rinvenimento e tutela - potrebbe compromettere la loro integrità bioecologica in conseguenza della riattivazione dei tagli. Al di là delle motivazioni, questa carenza di indirizzo delle politiche forestali regionali in relazione agli accordi internazionali (sottoscritti dal governo italiano come quelli di Parigi per la mitigazione dei cambiamenti climatici e quello di Aichi per la conservazione della biodiversità) e degli schemi di Forest Europe mina in modo serio la gestione forestale sostenibile. Con specifico riferimento alla strategia europea per la conservazione della biodiversità e a Forest Europe, le nazioni devono prevedere non solo spazi dedicati alla conservazione delle aree ad alta naturalità (foreste vetuste, censite da Forest Europe con l’indicatore 4.3: Naturalness), ma anche adeguate aree per la wilderness ([2], censite in Forest Europe con l’indicatore 4.9: protected forest) e il rewilding, senza le quali una legge forestale al passo con i tempi non può raggiungere gli obiettivi della gestione forestale sostenibile. Pensiamo così alle foreste di Sasso Fratino (FC) dove con la magistrale gestione del CFS è stato sufficiente fermare per alcuni decenni le utilizzazioni forestali per assistere al ritorno di una foresta vetusta secondaria, ricca di necromassa, dove sono tornati a nidificare sugli alberi il picchio nero e l’aquila!

Ecologia applicata per una gestione forestale sostenibile 

Normare solo gli aspetti relativi alle legittime aspettative socio-economiche di alcuni portatori di interessi senza interessare gli aspetti ecologico-funzionali del sistema foresta, con particolare riferimento alla biodiversità, rischia di determinare un vulnus grave per la funzionalità e la sostenibilità delle foreste nazionali. Infatti, lo Stato, rinunciando alla potestà legislativa in tema di pianificazione strategica per la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi (art. 117 della Costituzione), non da una risposta alle indicazioni e impegni di politica ambientale internazionale. In particolare, è grave il fatto che non venga dato un indirizzo ai metodi di pianificazione e alle tecniche selvicolturali, tema sì di pertinenza delle regioni, ma che avendo implicazioni sull’ambiente forestale richiede necessariamente una disciplina nazionale che tracci le diverse attività, assegnando a ciascuna regione degli obiettivi per rispondere agli accordi internazionali. Una ceduazione diventa così equivalente ad una conversione o ad un taglio colturale in fustaia, poiché in tutti questi casi i proprietari possono godere del pagamento dei servizi ecosistemici (PES, art. 7 comma 10), mentre ad esempio dal punto di vista degli obiettivi di Parigi di riduzione delle emissioni dei gas clima alteranti, questi tre tipi di trattamento determinano effetti molto differenti sullo stock del carbonio per unità di superficie e sulla emissione dei gas clima alteranti. Addirittura la scelta di non effettuare la gestione attiva del bosco viene praticamente cancellata - in quanto non specificatamente disciplinata ne supportata finanziariamente - precludendo così possibili processi di invecchiamento di specifici lembi forestali e quindi anche la genesi di nuove foreste vetuste. In altri termini, l’impostazione della legge propende per una gestione attiva, tema che ritorna nei diversi articoli anche perché considerato sinonimo di gestione forestale sostenibile, mentre le politiche per la biologia della conservazione vengono nei fatti scoraggiate se non ostacolate.

Infatti, equiparare alcuni popolamenti forestali non sottoposti a determinati trattamenti selvicolturali ad un terreno abbandonato (art. 3 comma 2 lettera g) è banalmente irragionevole dal punto di vista ecologico, selvicolturale e culturale ma, al solito tempo, va anche contro i principi di Forest Europe e della strategia europea per la conservazione della biodiversità che cercano di armonizzare la sfera naturale-ambientale con quella socio-economica. Così, ad esempio, con specifico riferimento ai cedui e dati gli obiettivi di politica ambientale internazionale, sarebbe stato opportuno prevedere ogni volta che vi fossero le condizioni, come ad esempio nei cedui di faggio, per un indirizzo verso la conversione all’alto fusto capace di coniugare l’uso delle risorse con la multifuzionalità degli ecosistemi forestali ([23]). Va a questo proposito sottolineato che le produzioni forestali posso essere antitetiche alla valorizzazione dei servizi ecosistemici ([16]), per cui sarebbe stato opportuno individuare nella legge un criterio di indirizzo assestamentale a tutela del capitale legnoso in modo da valorizzare l’azione di risparmio operata fino ad oggi in molti distretti forestali e generatrice di quei servizi ecosistemici di cui stiamo godendo in modo diffuso. Invece, l’effetto quasi diretto, speriamo non auspicato, sembra essere quello di voler diffondere su tutto il territorio, ad eccezione delle poche riserve integrali, una gestione forestale attiva finalizzata a massimizzare l’utilizzazione, senza avere un fondamento scientifico che tale scelta possa condurre allo sviluppo sostenibile auspicato. Addirittura, si giunge a normare degli strumenti di sostituzione diretta o di affidamento al fine di utilizzare un bosco “abbandonato”, contrastando così i naturali processi di rigenerazione che stanno contribuendo, in modo importante, alla mitigazione dei cambiamenti climatici e alla conservazione della biodiversità. D’altro canto, la legge non ha previsto negli strumenti di pianificazione forestale specifici vincoli ambientali di uso in relazione alle sfide per la mitigazione dei cambiamenti climatici e la conservazione della biodiversità, per cui la sostenibilità della pianificazione viene rimandata alla Strategia forestale nazionale nonché ad altri strumenti/decreti attuativi.

In relazione agli obiettivi di politica ambientale sopra delineati tale stimolo alle attività selvicolturali, non contemplando l’obbligo di tutela assoluta di quei lembi forestali maturi e ricchi di biodiversità, può quindi mettere a rischio aree di estremo interesse nella conservazione della natura non utilizzate da tempo, poiché collocate in aree remote o comunque di difficile accesso dove i costi delle utilizzazioni superano i ricavi (prezzo di macchiatico negativo). Ora, con lo strumento dei PES interpretato paradossalmente fino ad includere praticamente qualunque forma di selvicoltura (ad eccezione del taglio raso nella fustaia), inclusa l’ordinaria gestione del bosco governato a ceduo, tale aree potrebbero diventare utilizzabili e convenienti dal punto di vista finanziario, generando conseguenze negative certamente per la natura e la biodiversità che in questi lembi hanno trovato spazio. Gli effetti negativi potrebbero riguardare anche l’economia, se si considerano le alterazioni possibili alle funzioni del bosco attivabili in seguito alla gestione attiva in ambiti a rischio idrogeologico. In altre parole, il combinato disposto dell’assenza di una politica per la conservazione delle foreste e la contemporanea spinta alla gestione attiva del bosco mettono a serio rischio gli ultimi spazi ad elevata naturalità rimasti nel paese. Come precedentemente sottolineato, tali norme possono inoltre precludere la possibilità agli ecosistemi forestali di progredire verso stadi più naturali. Eppure l’EAA (European Environment Agency) aveva dedicato una particolare attenzione a questi temi del monitoraggio della naturalità finanziando studi specifici ([1]). Ora invece parte della classe politica e dei ricercatori forestali italiani guardano preoccupati all’abbandono e al dilagante e a volte eccessivo rinselvatichimento delle foreste italiane ([13]), processo di rewilding che nella biologia della conservazione rappresenta invece una opportunità importante nella strada verso lo sviluppo sostenibile ([15], vedi anche sotto).

Infine, questo indirizzo fondamentalmente improntato alla produzione, non sembra valorizzare opportunamente la cultura del bello, che nel caso degli ecosistemi forestali si identifica con la tutela dei processi capaci di generare maestose fustaie. La protezione di alcuni lembi di bosco lasciati all’evoluzione naturale è infatti motivo di orgoglio e punto di forza della nostra nazione, poiché indicatore di scelte autonome di tutela del patrimonio forestale così diffuse presso la collettività che molto prima della nascita del movimento ambientalista hanno permesso, per ragioni principalmente estetiche e ricreative, di risparmiare dal taglio boschi collocati in situazioni prossime ai centri abitati. Solo per citare alcuni casi tra i tanti, pensiamo alle maestose faggete del Cimino e di Oriolo Romano, recentemente entrate nella lista del Patrimonio Mondiale UNESCO, non per una scelta di politica ambientale, ma per un sentire collettivo di salvaguardare le bellezze naturali. Si tratta di processi tutt’altro che scontati poiché la limitrofa faggeta di Bassano Romano è stata invece destinata alla produzione di legname, mentre quella del Monte Venere è stata sottratta ai tagli in seguito alla recente approvazione della Regione Lazio di una norma a tutela delle foreste vetuste sulla spinta di parte della comunità scientifica e di gruppi attivisti per la conservazione delle foreste. Una legge forestale al passo con i tempi avrebbe dovuto far tesoro di tutte queste esperienze con il fine di attuare in modo completo la Strategia forestale Europea con particolare riferimento a norme finalizzate a proteggere le foreste e migliorare i servizi ecosistemici.

La biologia della conservazione riconosce da tempo l’importanza strategica delle foreste vetuste anche perché questi ecosistemi permettono di mitigare l’impatto dei cambiamenti climatici. Allo stesso tempo, sempre più autori riconoscono la necessità di lasciare spazi nei quali i processi naturali possano esprimersi, anche con la funzione di serbatoi, tali da assicurare benefici anche agli ecosistemi forestali perturbati dall’uomo presenti nel territorio circostante ([21]). Oggi disponiamo di sofisticati metodi per misurare il livello di naturalità di un ecosistema forestale tramite l’analisi della composizione, struttura e funzionalità ([1], [4]), per cui è giunto finalmente il momento di attuare un’ecologia applicata finalizzata a permettere il restauro passivo o attivo delle strutture più complesse e dei processi tipici degli habitat forestali, con particolare attenzione a quelli attualmente assenti nel paesaggio.

Alcuni nodi da sciogliere nel cammino verso la gestione forestale sostenibile 

Il grande Edward O. Wilson, padre del concetto di biodiversità moderno e della sociobiologia, ha lanciato recentemente un’idea, come obiettivo strategico, per salvare la vita sul pianeta così come l’abbiamo conosciuta noi, consistente nel lasciare metà del pianeta alla natura e ai suoi processi ([22]). Difficilmente si potrà immaginare di rinunciare, in questa fase storica, ad utilizzare metà della superficie delle foreste in questo caso. Tuttavia, quello che ci preme evidenziare è come la Scienza attuale riconosca come causa prima di perdita di biodiversità proprio l’indisponibilità di spazio a disposizione dei processi ecologici. Una banale interpretazione delle relazioni specie-area dimostra come il numero di specie viventi nel pianeta sia destinato all’estinzione solo per mancanza di superficie. In questi processi, l’estinzione non è immediata e arriva ben dopo che l’area è stata sottratta, secondo il noto modello del debito di estinzione. Wilson dimostra come il suo obiettivo, ad oggi paradossale, di lasciare metà del pianeta alla natura possa garantire la sopravvivenza dell’85% delle specie che oggi vivono sul pianeta. Nonostante il 15% delle specie sia comunque destinato all’estinzione, anche con la rinuncia a metà del pianeta, questo risultato sarebbe ottimo rispetto alle previsioni per il prossimo fine secolo.

Riconoscendo ancora la loro non applicabilità nel contesto socio-economico attuale, è però possibile pensare di integrare un minimo di questi concetti in una strategia forestale nazionale nonché specifici vincoli nei piani forestali di indirizzo territoriale? Noi crediamo di sì, ad esempio ad esempio introducendo criteri di zonizzazione del territorio forestale sulla base della funzione prevalente (conservazione vs. produzione vs. protezione) oppure della necessità di recuperare la funzionalità di ecosistemi degradati dall’eccessivo sfruttamento o da processi di deperimento (per esempio, restauro ambientale). Inoltre, non permettendo di utilizzare soldi pubblici dei PES per favorire le utilizzazioni in aree remote o di difficile accesso dove la selvicoltura non sarebbe finanziariamente sostenibile di per se e l’apertura di strade porterebbe ad impatti ambientali rilevanti. E perché invece non utilizzare questi fondi anche per indennizzare del mancato reddito i proprietari di habitat forestali da lasciare al dinamismo naturale poiché strategici nella biologia della conservazione? Del resto diversi boschi vetusti sono giunti fino a noi grazie a questa scelta del non uso varata da Franco Tassi nel Parco d’Abruzzo già negli anni settanta. Dal punto di vista ecologico, questi ambiti del rewilding potranno diventare dei serbatoi di biodiversità e di processi ecosistemici in molti comparti (ad esempio, nel suolo, altro criterio di Forest Europe non adeguatamente considerato in relazione agli impatti derivanti delle utilizzazioni forestali; funzioni protettive del bosco, criterio n. 4), che potranno generare flussi positivi anche per le aree forestali a gestione attiva. Inoltre, le aree lasciate al dinamismo naturale potranno servire da testimone (benchmark), non solo per confrontare gli impatti delle utilizzazioni forestali produttive, ma anche per comprendere l’efficacia di interventi di gestione forestale attiva nel tentativo di mitigare l’impatto dei cambiamenti climatici, dei megadisturbi e delle infestazioni. Considerazioni analoghe possono essere prodotte per altri criteri di Forest Europe, quali ad esempio il ruolo delle foreste nel ciclo del carbonio e la diminuzione degli stock in seguito alle utilizzazioni forestali (criterio 1). Inoltre, una gestione attiva, che vede anche il ritorno dell’agricoltura in ambiti oggi occupati dalle successioni forestali determina un cambiamento negli stock di carbonio contribuendo così ad un aumento di CO2 nell’atmosfera, disattendendo in questo modo gli accordi di Parigi.

Alla fine di questa breve nota è utile porsi una serie di domande a cui tentiamo di dare una prima risposta nel tentativo di intraprendere la strada dello sviluppo sostenibile.

Quale è stata la causa di questo cambiamento repentino nella politica forestale italiana, per cui, dopo decenni di un’attenta gestione delle foreste, all’improvviso si vuole cambiare paradigma di riferimento culturale e colturale? Può avere influito la recente decisione del Parlamento europeo di incrementare le utilizzazioni forestali che ha praticamente aperto le porte anche a livello europeo ad una crisi della sostenibilità nella gestione delle foreste ([11])? Così, ad esempio, per mitigare i cambiamenti climatici si è deciso di puntare sulle biomasse forestali per produrre energia, ma sappiamo che questa scelta non funziona poiché non è carbon neutral e arreca allo stesso tempo importanti impatti sul funzionamento degli ecosistemi forestali e la conservazione della biodiversità ([19]), per cui sarebbe stato opportuno nella legge introdurre dei vincoli e dei contributi finalizzati a promuovere le filiere foresta-legno virtuose (ad esempio produzione di assortimenti da destinare all’industria del legno). Riteniamo inoltre che una legge forestale al passo con i tempi debba innanzitutto disciplinare i diversi ambiti territoriali (rewilding vs. produzione vs. restauro).

Perché nella legge, dato l’interesse strategico delle foreste per la conservazione della natura, per le insostituibili funzione ecologiche e produttive, non si è deciso di attribuire i compiti della gestione attiva ad una figura professionale con specifiche competenze in materia? Per una gestione forestale sostenibile, data la complessità degli ecosistemi forestali, sarebbe opportuno che almeno nella pianificazione e progettazione dei tagli fosse riconosciuto l’obbligo del coinvolgimento di un dottore forestale, coadiuvato da esperti nelle scienze naturali, al fine di garantire il minor impatto possibile sugli ecosistemi oggetto della gestione attiva. Di fronte a un mondo che va verso specializzazioni sempre più spinte il Decreto rilascia alle regioni il compito di individuare i soggetti di comprovata competenza professionale nel rispetto delle norme relative ai titoli professionali richiesti, mentre sarebbe stato opportuno per la tutela degli ecosistemi forestali e dell’ambiente prevedere, proprio sulla base dell’art. 117 della Costituzione, specifiche competenze sulla biologia ed ecologia forestale, della difesa delle foreste, della dendrometria, della selvicoltura, delle utilizzazioni forestali, della tecnologia del legno, della pianificazione ecologica del territorio e delle sistemazioni idraulico-forestali.

In nostro appello consiste quindi nel rivedere i punti deboli della legge e nell’includere nel testo i temi sopra evidenziati, tenendo a mente la cultura del nostro Paese che nel campo della giurisprudenza ha fatto spesso da apripista, specialmente sul tema ambientale. Certi concetti presenti nel testo sono vecchi di tre secoli e sinceramente riteniamo che il ruolo sociale e culturale delle foreste, riconosciuto per la prima volta in questa legge, debba considerare lo stato dell’arte della ricerca scientifica in tema di ecosistemi e ambiente. D’altro canto, l’attenzione ormai costante della politica ambientale internazionale sul ruolo centrale delle foreste nello sviluppo sostenibile potrà rendere necessarie alcune modifiche ed integrazioni al Decreto al fine di perseguire gli obiettivi prefissati come nel caso del nuovo Regolamento sull’uso del suolo, sui cambiamenti d’uso del suolo e la selvicoltura (LULUCF) recentemente approvato dal Parlamento Europeo (17 aprile 2018) per la riduzione delle emissioni dei gas serra.

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