*

Considerations about the forester’s silence on the ”Bambi di Alessandria“ issue.

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 3, Pages 456-458 (2006)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0422-0003
Published: Dec 18, 2006 - Copyright © 2006 SISEF

Commentaries & Perspectives

Abstract

Last summer, a claim on the Italian mass-media was raised following the decision of the Piedmont region to authorize a selective hunting on 600 roe deers. Almost everyone participated in the debate, in most cases with emotional considerations, overwhelming the opinions of experts. Unfortunately, the only “absents” have been the representatives of foresters. On the contrary, foresters could have brought important arguments and data to contribute in the debate, considering the impact of deer on the forest environment. An integrated management of wildlife and forest resources is possible, but it is necessary to contribute with real arguments in a debate, in which foresters do have the knowledge, the capacities and the duty to raise their voice.

Keywords

Wild ungulate, Forest management, Selective hunting, Mass Media, Public opinion, Foresters

 

Questa estate, al contrario di quanto solitamente accade, non sono state le devastanti conseguenze degli incendi a tenere banco nelle prime pagine dei nostri quotidiani, bensì la vicenda dei “Bambi di Alessandria”. La “notizia” dell’approvazione da parte della Regione Piemonte dell’abbattimento selettivo di circa 600 caprioli in provincia di Alessandria ha monopolizzato l’attenzione dei mass media, facendo prendere coscienza all’opinione pubblica che nel nostro paese alcune specie selvatiche sono ritenute in soprannumero in misura tale che gli enti competenti in materia possono autorizzarne la caccia. La notizia in realtàè tale solo perché i mass-media l’hanno portata all’attenzione del grande pubblico. La caccia di selezione agli ungulati non è infatti assolutamente una novità: oltre che essere praticata in molti stati è profondamente radicata nell’Europa centrale. Per quanto riguarda il nostro paese, è una forma di caccia che ha una solida e lunga tradizione nelle aree dell’arco alpino, mentre in molte regioni del centro-nord Italia è praticata da almeno un decennio.

Come spesso accade allorquando le conoscenze di base su di un determinato argomento sono scarse e le informazioni frammentarie, il grande pubblico si è orientato principalmente sulla base di valutazioni di tipo emozionale. E così, sotto l’ombrellone, sui “Bambi di Alessandria” è capitato di sentire tutto e il contrario di tutto. Anche perché sull’argomento si è registrato un diluvio di dichiarazioni e prese di posizione di amministratori locali, presidenti di regione, ministri, animalisti e sostenitori della caccia, che hanno in buona parte sommerso quelle degli esperti. Dichiarazioni talora tese a strumentalizzare palesemente la questione, talaltra strumentalizzate dagli stessi mass media. Basti pensare che il caso è scoppiato per l’abbattimento di circa 600 caprioli quando si stima che i piani di prelievo a livello nazionale prevedano l’abbattimento di circa 50.000 caprioli! Ad essi vanno poi aggiunti decine di migliaia di cinghiali, cervi, daini e camosci. Del resto i contorni del problema possono essere facilmente desunti dai dati relativi alla dinamica delle popolazioni delle principali specie di ungulati selvatici nel nostro paese (Tab. 1). Sorprendono in particolare i dati relativi alla consistenza delle popolazioni di cervo, capriolo e cinghiale, e soprattutto i valori dei tassi di accrescimento, in qualche caso da “capogiro”.

Tab. 1 - Stime della consistenza delle popolazioni delle principali specie di ungulati e relativi incrementi (fonte: Apollonio M 2004 - Ungulate distribution, consistency, and management in Italy. Workshop: “Ungulate management in Europe”, Erice - Sicily: 12-17 November 2004 - modificato).

Specie 1980 2004 Incremento
1980-2004
Incremento
1980-2004
Incremento
medio annuo
n. capi n. capi n. capi % %
capriolo 103000 340000 237000 330 5.8
daino 6430 25000 18570 388 6.7
cervo 7630 49200 41570 636 9.2
muflone 4960 10800 5840 218 3.8
cinghiale ? 350000 - - -
camoscio appen. 240 650 410 277 4.9
camoscio alpino 59300 148000 88700 249 4.4
stambecco 4350 13550 9200 311 5.5

 Enlarge/Shrink  Open in Viewer

Ma forse, più che entrare nel merito della questione di per sé complessa, conviene interrogarsi sul perché tra le voci degli esperti non ci sia stata una presenza significativa di esponenti del mondo forestale. In sostanza, salvo qualche sporadica presa di posizione e alcuni spazi dedicati da qualche rivista di settore, sembra che la parola d’ordine sia stata “glissare”. È così che nel dibattito sono più volte risuonate le ragioni degli agricoltori per i danni arrecati alle colture e le statistiche relative all’incremento degli incidenti stradali causati dalla selvaggina, con tanto di stime di costi per la collettività, ivi compresi quelli per coperture assicurative; nulla invece per quanto riguarda boschi e foreste. Certo la patata era bollente, ma da passarla rapidamente a qualcun altro a non prenderla neanche in mano, ne passa. Anche perché non avere voce in capitolo è in genere cosa poco auspicabile; lo è ancora di più se si hanno argomenti da spendere.

E di argomenti da spendere il mondo forestale ne aveva e ne ha molti. In primo luogo macchie e foreste costituiscono l’habitat elettivo per molti ungulati selvatici. Non è un caso che alcune aree forestali abbiano svolto la funzione di veri e propri centri di ri-diffusione per alcune specie solo qualche decennio fa ritenute rare o in via di estinzione. Ancor più, l’aumento esponenziale delle popolazioni di ungulati registrato negli ultimi due decenni nel nostro paese è in buona parte dovuto anche all’oggettivo miglioramento dello stato dei nostri boschi. In altre parole le politiche forestali e le forme di gestione adottate negli ultimi 30-40 anni, magari criticabili sotto altri punti di vista, hanno senza ombra di dubbio favorito molte specie selvatiche e in modo particolare gli ungulati. A tale proposito è prevedibile che, fermi restando questi trends, si possa assistere, nel breve-medio termine, ad un ulteriore aumento della consistenza complessiva degli ungulati nel nostro paese. Il che non è cosa né trascurabile, né da “subire”, anche e soprattutto allorché si evoca la multifunzionalità come uno dei punti fermi di una buona gestione forestale.

D’altra parte non va però sottaciuto l’altro corno del problema e cioè che l’impatto degli ungulati sui nostri boschi negli ultimi anni è cresciuto a dismisura. Fino a qualche decennio fa il problema interessava essenzialmente le foreste di conifere in rinnovazione, per lo più all’interno di parchi nazionali, aree protette o comunque in aree di proprietà pubblica. Negli ultimi anni il fenomeno da circoscritto è divenuto diffuso arrivando ad interessare, anche in maniera significativa, non solo i boschi di latifoglie in genere, ma anche la rinnovazione agamica dei cedui in aree di proprietà privata. In molte zone la densità degli ungulati è tale da condizionare significativamente la gestione, mettendo in discussione soprattutto la rinnovazione, sia naturale che artificiale, e quindi la stessa stabilità degli ecosistemi forestali.

Sono questi, seppure esposti in estrema sintesi, i titoli di alcuni argomenti che potevano essere opportunamente portati all’attenzione nel dibattito sui “Bambi di Alessandria”; cosa che purtroppo non è avvenuta. Titoli e argomenti che fanno intravedere da un lato come esistano ancora le condizioni per una ulteriore espansione degli ungulati selvatici nel nostro paese; dall’altro, che non si può far finta che non esista il problema dell’impatto su boschi e foreste e che, in alcune aree esso non sia tale da mettere in dubbio la stessa perpetuità degli ecosistemi unitamente alle loro funzioni, comprese quelle economico-produttive.

Al di là delle possibili soluzioni, tacere tutto ciò è miope. Miope perché di fatto contribuisce a emarginare e sminuire ulteriormente il ruolo del nostro patrimonio forestale e di chi, sotto varie forme, lo ha tutelato e gestito e continua tuttora a farlo. Miope perché è nella natura delle cose che coloro che su un dato problema hanno una posizione e la esprimono possano poi partecipare anche alla individuazione delle possibili soluzioni del problema stesso. All’opposto, chi tace, di fatto, acconsente e spesso acconsente a ciò che altri hanno deciso. Miope infine perché dietro ai “Bambi di Alessandria” c’è un problema che va ben oltre e che ha risvolti di natura etica, culturale, sociale ed economica. Rompiamo perciò l’assordante silenzio del mondo forestale e battiamo un colpo. Lo facciano anche gli enti e le istituzioni preposte, ivi compresa la nostra Società. Siamo ancora in tempo. Quello della provincia di Alessandria non sarà certo l’ultimo caso. È ancora possibile intervenire nel dibattito dando voce a un settore che ha tutti i numeri per essere ascoltato e per proporre strategie di gestione integrata del patrimonio forestale e faunistico o comunque di “mitigazione dei conflitti”. All’opposto, il problema che già oggi interessa larga parte del nostro paese tenderà inevitabilmente ad acuirsi negli anni a venire, andando a minare nel medio-lungo termine gli equilibri dei nostri boschi e

delle nostre foreste e con essi la stabilità delle stesse popolazioni di ungulati. In questo caso il silenzio e lo scorrere del tempo contribuiranno ad acuire i conflitti tra le varie componenti dell’ecosistema e della società, a scapito in primo luogo del nostro patrimonio forestale, indubbiamente l’anello più debole di tutta la vicenda.

 
 
 

Navigazione

 

This website uses cookies to ensure you get the best experience on our website. More info